Ci sono personaggi il cui cammino è stretto in un tempo che conduce a un’involontaria ambiguità difficilmente giustificabile agli occhi della storia.
È il caso di Leni Riefenstahl, musa, ballerina, attrice, regista, fotografa, innovatrice del linguaggio cinematografico, pioniera di nuove tecniche di ripresa, ispirazione e maestra per generazioni di cineasti. Un secolo di vita, pericolosamente vissuto attraverso le stagioni più buie e sanguinarie del Novecento – vicino, troppo vicino al fuoco del regime nazista per non bruciarsi e per non compromettersi – e poi ostinatamente (sopra)vissuto nonostante le accuse, le domande inevase e i sensi di colpa, sempre, e fieramente, resistendo alla noia e all’oblio.
Di questa lunga e straordinaria parabola di vita, “Leni, il trionfo della bellezza” racconta i giorni d’oro delle riprese di “Olympia”, il suo capolavoro: un resoconto delle Olimpiadi di Berlino del 1936, dove lo sport, lontano dalla trivialità della cronaca, viene raccontato col piglio epico di una narratrice di corpi, gesti, sguardi e desideri agonistici, celebrando, allo stesso – ambiguo – tempo, l’ideale di una bellezza che incarna e materializza l’estetica del Reich, e l’utopia di una competizione che unisce uomini e donne al di là di ogni appartenenza etnica o religiosa, sullo sfondo di un cielo, quello di Berlino, suggestivamente fotografato dal basso grazie a delle speciali “trincee” costruite ad hoc nell’Olympiastadion.
Se da questo incipit omettessimo l’anno, il 1936, e tacessimo la relazione (di committenza?, di passione?, di sottomissione?) che, all’epoca di queste riprese, legò Leni intensamente a Hitler, staremmo “solo” raccontando la lavorazione di una pietra miliare del cinema, ispirazione consumata e rimasticata infinite volta dalla cultura pop. Ma intorno a “Olympia” si gioca l’identità e il ruolo nel teatro storia di quella che è senz’altro la più grande, e controversa, regista donna che il cinema ricordi. Innocentemente spudorata ma insondabilmente oscura, pericolosamente incosciente ma maniacalmente consapevole di sé, poetessa della propaganda eppure dichiaratamente apolitica. Chi era, in realtà, Leni? La giovane ballerina piena di sogni, l’atletica diva del muto che rischia di soffiare a Marlene il ruolo de “L’Angelo azzurro”, la caparbia e visionaria cineasta che sfida Goebbels per difendere la propria libertà creativa, l’appassionata fotografa che nella seconda metà della sua vita creativa immortala in immagini indimenticabili i Nuba e i tesori sottomarini?
Oppure Leni è, prima di tutto, l’occhi dietro la più sofisticata, e ferocemente politica, operazione di manipolazione dell’immaginario che la Storia ricordi? E che cos’è dunque, “Olympia”? L’ideale prosecuzione de “Il Trionfo della Volontà”, proiezione mitopoietica dei valori del regime realizzato dalla regista su commissione del partito, o piuttosto il tentativo ispirato e disperato di una grande artista di domare il caos attraverso la bellezza? Può in definitiva un occhio dichiararsi innocente? Può esistere uno sguardo apolitico?